Shireen Abu Akleh, morte ‘collaterale’ di una giornalista in un raid israeliano

O quello che i media non dicono. Shireen Abu Akleh, giornalista di guerra di Al-Jazeera, è stata uccisa con colpi di arma da fuoco alla testa sparati da un cecchino, mentre stava documentando il raid militare israeliano nel campo di Jenin, nella Cisgiordania occupata. A proteggerla non è bastato nemmeno il giubbotto blu con la scritta “Press”.

La sua morte passa inosservata, la vita di una giornalista di fama mondiale esperta di conflitti, di una donna coraggiosa che “ha ispirato una generazione di donne a diventare giornalisti“, ha ricordato la sua amica Dalia Hatuqa.

Israele accusa i palestinesi della sua morte. Il primo ministro israeliano Naftali Bennet senza mezzi termini lo ribadisce in una serie di tweet:

Nello scontro a fuoco, una giornalista al-Jazira – la signora Sheerin Abu Akala – è stata purtroppo ferita e uccisa. L’Autorità Palestinese si è affrettata ad accusare Israele e il presidente dell’Autorità Palestinese ha lanciato accuse infondate in Israele, anche prima di un’indagine. Secondo i dati preliminari di cui disponiamo, ci sono buone probabilità che la giornalista sia stata vittima dell’attacco palestinese“.

Poche ore dopo l’uccisione, un video postato dall’agenzia stampa Palestine Online mostra alcuni militari israeliani mentre aggrediscono un gruppo di civili palestinesi fuori dalla casa della giornalista Shireen Abu Akleh. In queste ore altri particolari si aggiungono alla vicenda, come la notizia che “Una foto aerea pubblicata da B’Tselem mostra la posizione in cui si trovava la giornalista di Al-Jazeera Shireen Abu Aqleh al momento dell’uccisione, per mano di un cecchino israeliano poiché nel video distribuito dalle forze di occupazione israeliane era lontana dai combattenti della resistenza palestinese“.

Per Israele “i fatti di Jenin vanno visti in un contesto più ampio: negli ultimi due mesi Israele è stato oggetto di un attacco terroristico omicida. I terroristi palestinesi uccidono ripetutamente israeliani”. Naftali Bennet

Il premier israeliano ha attivamente commentato in queste ore dal suo profilo Twitter, anche mentre erano in corso le operazioni nello Jenin, specificando come le “azioni sono state avviate per interrompere l’ondata di terrorismo e ripristinare la sicurezza dei cittadini israeliani. Siamo determinati a continuare fino al raggiungimento dell’obiettivo e rafforziamo i soldati dell’IDF, i membri del GSS e la polizia che stanno rischiando la vita per salvarci”.

In una sorta di telecronaca israeliana tweet by tweet si vede la costruzione del racconto di questo attacco. Prima e durante le operazioni, Bennet ribadisce la necessità di difendersi e lo “sforzo dello Stato di Israele per fermare l’ondata assassina del terrorismo“.

All’indomani della vasta operazione nel nord della Samaria da parte dell’IDF, il premier afferma che “uomini armati palestinesi hanno aperto il fuoco. Impreciso, incontrollato e indistinguibile. Le nostre forze sono tornate alle fonti del fuoco e hanno sparato nel modo più accurato possibile, distinto e responsabile.”

“Impreciso”, “incontrollato” e “indistinguibile” da una parte, “distinto” e “responsabile” dall’altra. Parole scelte accuratamente, visto che poco dopo saranno le stesse che infilate in un commento al proprio tweet vengono trattate come mera appendice per commentare la morte collaterale di una giornalista causata da un “fuoco” impreciso, incontrollato, indistinguibile e… palestinese.

Si passa sopra una morte, tante morti. Si proclama il diritto di attacco, di guerra per difesa. Una narrazione che chiede sempre e solo una cosa: credere o negare. Bianco o nero. Chi vince? Chi continua a morire(?).

Il giornalismo perde (ancora) a braccetto della democrazia e dei diritti. Un’altra storia sommersa o raccontata con parzialità e superficialità. Lo denuncia anche l’agenzia stampa PalestineOnline: “Almeno 3 testimoni oculari raccontano il momento in cui le forze israeliane hanno sparato e ucciso Shireen Abu Akleh, ma i principali media occidentali riportano altro“.

Una narrazione che piace al premier israeliano, appena tre ore fa nella sua ‘socialcronaca’ dichiara, in quello che appare come una sorta di ringraziamento a chi sostiene la sua:

Dopo anni passati a vedere il mondo adottare le storie dei palestinesi come verità assoluta, c’è finalmente un sistema nazionale di difesa che non lascia il palcoscenico dei media per le bugie dei nostri nemici. L’anno scorso abbiamo istituito un sistema informativo nazionale guidato da Elad Tene e oggi abbiamo visto quanto sia importante. Non abbandoneremo questa arena“.

“Arena”, appunto. Le parole sono pietre.

Lo so, è un post lungo, lunghissimo, non siamo più interessati ad approfondire, questo non ci tocca direttamente. Ma, faccio mie le parole di Shireen Abu Akleh:

“Forse non posso cambiare la realtà, ma almeno sono riuscita a comunicare quella voce al mondo”.

E questo ricorda tanto l’amata Anna Stepanovna Politkovskaja uccisa da Putin.

La speranza? Che vengano avviate delle inchieste indipendenti, che i colpevoli inizino a pagare, che il giornalismo smetta di essere un crimine (#journalismisnotacrime) e che venga resa giustizia ai quasi 8.000 palestinesi, inclusi più di 1.300 minori e 184 donne, arrestati senza accusa né processo dall’esercito israeliano, solo nel corso del 2021. “Israele detiene circa 4.450 palestinesi – tra cui 160 bambini, 32 donne e 530 detenuti amministrativi – nelle carceri”.

In un’infografica pubblicata da Al-Jazeera all’interno dell’articolo “Infographic: How many Palestinians are imprisoned by Israel?” si legge: “Le autorità israeliane hanno anche emesso più di 1.500 ordini di detenzione amministrativa, trattenendo i palestinesi senza accusa né processo, secondo il gruppo per i diritti dei prigionieri Addameer“.

Un violazione, migliaia di violazioni. Una morte, migliaia di morti.

#Shereen_Abu_Aqleh#شيرين_ابو_عاقلة

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Le fonti dell’articolo sono traduzioni online dei tweet pubblicati su media e profili ufficiali israeliani e palestinesi

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