Un t’abbrucia? La Sicilia piegata ancora dagli incendi

E a te un t’ab-brucia? Abbruciare, ti brucia, un riflessivo affettivo, sanguigno, che punta al cuore, con dito fermo e affonda. A te non brucia? Questa terra che piange, che brucia e si consuma. Non t’abbrucia vederla così? Respirare il suo sangue nell’aria appestata dai veleni. Ci stiamo abituando. Anche a questo, a questo odore che pizzica le narici, che fa stringere gli occhi, li fa lacrimare. Si insinua nelle case come la peste. Ma lo riconosciamo e quasi quasi manco ci fa paura. Andiamo sul balcone e lo fissiamo con l’occhio meccanico della nostra protesi emotiva, lo smartphone. Ci stiamo abituando al rosso vermiglio minaccioso, a pensare che per fortuna viviamo in città e il fumo è lontano, straniero, non c’appartiene. Domani è domani. Ci stiamo abituando alla rassegnazione.

Continua a bruciare. Non smette. Riprende il capitolo del disastro annunciato, perseverato. Brucia da così tanto tempo questa terra che si è smesso di contare le ceneri sopra le nostre terra. Brucia la Sicilia perché non la amiamo abbastanza. «Soffre, la Sicilia, di un eccesso d’identità, né so se sia un bene o sia un male.» scriveva Gesualdo Bufalino delle tante sicilie disperse, dell’anima insulare votata al perdono di sè stessi e del proprio male. Atavico. Profondo. Perché crediamo di possederla e di poterne fare quello che ci pare. Antropocene e patriarcato? Ma che c’entra qualcuno dice, direbbe, dirà. Eppure, sembra una linea di fuoco neppure così sottile, perché la terra genitrice è ferita nel suo grembo, le sue creature uccise. La mano che violenta, distrugge, mortifica perché la possiede. È sua, dice nell’atto di ferirla nel profondo e strappargli la vita. L’altra mano, quella buona vorrebbe affondare al nodo nodulo di questo male e tirarlo via. Ma c’è chi la usa per pararsi gli occhi, tapparsi il naso. La storia delle tre scimmie, insomma. La radice dove è? Di questo male che abbrucia da tempo, che questi fuochi ne sono solo tiepido effetto di qualcosa di più profondo.

E tu, proprio tu, unnu senti c’abbrucia? Nel petto forte, così come nelle narici. E le lacrime agli occhi dicono sia il fumo. Dicono. E pare peccato il peccato che gioca con l’anima di questa terra. Ma è un gioco crudele. Non ce l’aspettavamo che bruciasse. Lo dicono sempre. Una filastrocca della tradizione anche questa, quella del disamore, la ninnananna del potere che si assolve da ogni peccato, pure quello che commette.

Come si fa a smettere? Come si fa a diventare città, terra, comunità? Come si fa a smettere di bruciare. A salvare la terra. Bruciano gli occhi, la terra e il cuore ferito.

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Lo avevamo già detto che sarebbe accaduto. Che succederà ancora. Ne avevamo già parlato qui il 2 agosto: “Vergognati tu che bruci la tua terra”. Storie dei sopravvissuti ai roghi e le terribili immagini degli incendi

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